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  • Aborto, suicidio assistito ed eutanasia. La Chiesa ribadisce i suoi tre “no” e invita gli operatori all’obiezione di coscienza e alla disobbedienza civile quando non è prevista. Condanna durissima anche per il legislatore

Aborto, suicidio assistito ed eutanasia. La Chiesa ribadisce i suoi tre “no” e invita gli operatori all’obiezione di coscienza e alla disobbedienza civile quando non è prevista. Condanna durissima anche per il legislatore

27 settembre 2020 – Lo ribadisce in un documento la Congregazione per la Dottrina delle Fede. IL TESTO INTEGRALE

E’ stata pubblicata il 22 settembre scorso la lettera Samaritanus Bonus sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita della Congregazione per la Dottrina della Fede già approvata da Papa Francesco a giugno.
 
Nel lungo e articolato documento suddiviso in 12 paragrafi elaborato dall'organismo della Curia romana incaricato di promuovere e tutelare la dottrina della Chiesa cattolica si fissano altrettanti principi inderogabili per i fedeli ma, nell’intento degli estensori, incidenti anche per i laici e le stesse istituzioni legislative civili.
 
Per la Congregazione: “L’eutanasia è un atto omicida che nessun fine può legittimare e che non tollera alcuna forma di complicità o collaborazione, attiva o passiva. Coloro che approvano leggi sull’eutanasia e il suicidio assistito si rendono, pertanto, complici del grave peccato che altri eseguiranno. Costoro sono altresì colpevoli di scandalo perché tali leggi contribuiscono a deformare la coscienza, anche dei fedeli”.
 
Un linguaggio molto duro e netto che non lascia dubbi sulla visione ufficiale delle Chiesa cattolica sul fine vita che ritroviamo anche quando si parla di suicidio assistito: “Aiutare il suicida è un’indebita collaborazione a un atto illecito, che contraddice il rapporto teologale con Dio e la relazione morale che unisce gli uomini affinché condividano il dono della vita e compartecipino al senso della propria esistenza”.
 
E che trova una compiuta condanna laddove leggiamo: “Sono gravemente ingiuste, pertanto, le leggi che legalizzano l’eutanasia o quelle che giustificano il suicidio e l’aiuto allo stesso, per il falso diritto di scegliere una morte definita impropriamente degna soltanto perché scelta. Tali leggi colpiscono il fondamento dell’ordine giuridico: il diritto alla vita, che sostiene ogni altro diritto, compreso l’esercizio della libertà umana. L’esistenza di queste leggi ferisce profondamente i rapporti umani, la giustizia e minaccia la mutua fiducia tra gli uomini. Gli ordinamenti giuridici che hanno legittimato il suicidio assistito e l’eutanasia mostrano, inoltre, una evidente degenerazione di questo fenomeno sociale”.
 
Il tema dell’aborto non è invece oggetto diretto del documento anche se la lettera del Buon Samaritano vi interviene laddove si sofferma sul tema dell’accompagnamento e la cura in età prenatale e pediatrica, sottolineando come…l’uso a volte ossessivo della diagnosi prenatale e l’affermarsi di una cultura ostile alla disabilità inducono spesso alla scelta dell’aborto, giungendo a configurarlo come pratica di “prevenzione”. Esso consiste nell’uccisione deliberata di una vita umana innocente e come tale non è mai lecito. L’utilizzo delle diagnosi prenatali per finalità selettive, pertanto, è contrario alla dignità della persona e gravemente illecito perché espressione di una mentalità eugenetica. In altri casi, dopo la nascita, la medesima cultura porta alla sospensione o al non inizio delle cure al bambino appena nato, per la presenza o addirittura solo per la possibilità che sviluppi nel futuro una disabilità. Anche questo approccio, di matrice utilitarista, non può essere approvato. Una simile procedura, oltre che disumana, è gravemente illecita dal punto di vista morale”.
 
Ribadito anche il no alla sospensione di alimentazione e idratazione artificiali salvo quando “non risulta di alcun giovamento al paziente, perché il suo organismo non è più in grado di assorbirli o metabolizzarli”.
 
E poi una nuova puntualizzazione sull’accanimento terapeutico che la Chiesa cattolica conferma di rifiutare, “nell’imminenza di una morte inevitabile”, quando “è lecito in scienza e coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi”.
 
Ma, si specifica, “ciò significa che non è lecito sospendere le cure efficaci per sostenere le funzioni fisiologiche essenziali, finché l’organismo è in grado di beneficiarne (supporti all’idratazione, alla nutrizione, alla termoregolazione; ed altresì aiuti adeguati e proporzionati alla respirazione, e altri ancora, nella misura in cui siano richiesti per supportare l’omeostasi corporea e ridurre la sofferenza d’organo e sistemica)”.
 
La sospensione di ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione dei trattamenti non deve essere desistenza terapeutica. Tale precisazione – si legge nel documento - si rende oggi indispensabile alla luce dei numerosi casi giudiziari che negli ultimi anni hanno condotto alla desistenza curativa – e alla morte anticipata – di pazienti in condizioni critiche, ma non terminali, a cui si è deciso di sospendere le cure di sostegno vitale, non avendo ormai essi prospettive di miglioramento della qualità della vita”.
 
E inoltre, si legge ancora, “Nel caso specifico dell’accanimento terapeutico, va ribadito che la rinuncia a mezzi straordinari e/o sproporzionati «non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte» o la scelta ponderata di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare. La rinuncia a tali trattamenti, che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, può anche voler dire il rispetto della volontà del morente, espressa nelle cosiddette dichiarazioni anticipate di trattamento, escludendo però ogni atto di natura eutanasica o suicidaria.”.

E infine un monito affinché sia sempre prevista e praticata (anche in assenza di una legge specifica) l’obiezione di coscienza da parte degli operatori sanitari e delle istituzioni sanitarie cattoliche perché “dinnanzi a leggi che legittimano – sotto qualsiasi forma di assistenza medica – l’eutanasia o il suicidio assistito, si deve sempre negare qualsiasi cooperazione formale o materiale immediata”.
 
Per la Congregazione, “è necessario che gli Stati riconoscano l’obiezione di coscienza in campo medico e sanitario, nel rispetto dei principi della legge morale naturale, e specialmente laddove il servizio alla vita interpella quotidianamente la coscienza umana”.
 
Ma, “dove questa non fosse riconosciuta – si legge nel documento - si può arrivare alla situazione di dover disobbedire alla legge, per non aggiungere ingiustizia ad ingiustizia, condizionando la coscienza delle persone. Gli operatori sanitari non devono esitare a chiederla come diritto proprio e come contributo specifico al bene comune”.

 

 

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