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La salute degli italiani è a un bivio: vivono più a lungo, ma peggio. Denatalità e fecondità sempre più giù. Cresce il ricorso alla PMA

23 maggio - Dall’apparente trionfo della longevità - 81,4 anni per gli uomini, 85,5 per le donne - emerge un dato allarmante: la speranza di vita in buona salute continua a ridursi. Un italiano su dieci ha smesso di curarsi, sopraffatto da liste d’attesa infinite e costi insostenibili. Il ricorso al privato dilaga, ma solo chi può pagare accede. Il numero di decessi (651mila nel 2024) è superiore a quello delle nascite (370mila), generando un saldo naturale pari a -281mila unità. Cresce il  ricorso alla Pma: il numero dei trattamenti è passato da 63.585 nel 2005 a 109.755 nel 2022 (+72,6 per cento). IL RAPPORTO

 

Mentre l’Italia festeggia nuovi record di longevità, cala il sipario sulla qualità della vita degli anni guadagnati. I dati ufficiali del 2024 raccontano una realtà spietata: viviamo di più, ma non meglio. E a farne le spese sono soprattutto le donne, i residenti del Mezzogiorno e chi non può permettersi il lusso di una sanità privata.

Dall’apparente trionfo della longevità - 81,4 anni per gli uomini, 85,5 per le donne - emerge un dato allarmante: la speranza di vita in buona salute continua a ridursi. Una donna italiana oggi può aspettarsi di vivere in autonomia solo fino a 56,6 anni, segnando il peggior dato dell’ultimo decennio. Peggio ancora se nasce al Sud: la sua vita in salute si ferma a 54 anni, quasi 10 in meno rispetto alle coetanee del Nord-est.

Prosegue la sua corsa l’accentuata fase di denatalità, in atto dal 2008, determinata dalla riduzione delle donne in età feconda. Uno scenario che vede crescere il ricorso alla Pma: dal 2005 al 2022 (è cresciuto del 72,6 per cento.

Sono alcune delle considerazioni che emergono dalla lettura dei numeri contenuti nel Rapporto annuale dell’Istat sulla situazione del Paese.

Un Rapporto che segnala anche la crescita silenziosa di un fenomeno che pesa sulla salute pubblica come una nuova emergenza sociale: la rinuncia alle cure. Un italiano su dieci ha smesso di curarsi, sopraffatto da liste d’attesa infinite e costi insostenibili. Il ricorso al privato dilaga, ma solo chi può pagare accede. Il diritto alla salute, sancito dalla Costituzione, sembra ormai un privilegio.

E mentre il disagio psicologico dilaga tra giovani e anziani, le disuguaglianze si cristallizzano: tra uomini e donne, tra Nord e Sud, tra istruiti e meno istruiti. Le disabilità aumentano con l’età, ma i servizi faticano a rispondere. In un Paese che invecchia e si ammala senza risposte adeguate, l’“eccezione italiana” rischia di esplodere.


Il quadro demografico Al 1° gennaio 2025, la popolazione residente in Italia è pari a 58 milioni 934mila unità, in lieve diminuzione (-0,6 per mille) rispetto al 1° gennaio 2024. Prosegue il processo di decremento della popolazione, in atto dal 2014 e ormai strutturale, evidenziando un calo in linea con quello del biennio precedente (-0,4 per mille nel 2023, -0,6 nel 2022). Il calo della popolazione riflette la dinamica naturale negativa. Il numero di decessi (651mila nel 2024) è superiore a quello delle nascite (370mila), generando un saldo naturale pari a -281mila unità.
L’accentuata fase di denatalità, in atto dal 2008, è determinata dalla riduzione delle donne in età feconda, cioè le 15-49enni (diminuite di 2,4 milioni dal 1° gennaio 2008, 11,4 milioni al 1° gennaio 2025), dal calo della fecondità, scesa nel 2024 al minimo storico di 1,18 figli per donna e dal rinvio della genitorialità.
La diminuzione della mortalità nel 2024 (-3,1 per cento sul 2023) ha contribuito all’aumento della speranza di vita alla nascita. Per gli uomini raggiunge gli 81,4 anni e per le donne 85,5, quasi cinque mesi di vita in più rispetto al 2023, superando i livelli pre-pandemici. La dinamica migratoria compensa in parte il deficit dovuto al saldo naturale negativo. Nel 2024 le immigrazioni dall’estero (435mila) sono state più del doppio delle emigrazioni (191mila) e il saldo migratorio è pari a +244mila unità.

 

La procreazione medicalmente assistita
I dati mostrano un forte incremento del ricorso alla Pma: il numero dei trattamenti è passato da 63.585 nel 2005 a 109.755 nel 2022 (+72,6 per cento). Nel medesimo periodo, il tasso di successo13 è raddoppiato, passando dal 16,3 per cento al 32,9 per cento. Anche l’età media delle donne che ricorrono a queste tecniche è aumentata, da 34 anni nel 2005 a 37 anni nel 2022 (contro i 35 anni della media europea del 2019), e la percentuale di donne con più di 40 anni è salita dal 20,7 per cento al 33,9 per cento (rispetto al 21,9 per cento in Europa nel 2019). L’eliminazione dell’obbligo
di trasferire in utero tutti gli embrioni generati ha inoltre ridotto il numero medio di embrioni impiantati, passato da 2,3 a 1,3, con una conseguente diminuzione dei parti gemellari, scesi dal 23,2 per cento al 5,9 per cento.
Il numero di bambini nati vivi grazie alla PMA14 è cresciuto da poco più di 12 mila nel 2013 a oltre 16 mila nel 2023 (+33,1 per cento). In rapporto al totale dei nati vivi, la quota di quelli concepiti con PMA è salita dal 2,4 per cento nel 2013 al 4,3 nel 2023. A partire dai 40 anni di età delle madri, il numero di nascite da PMA cresce in modo sostenuto, raggiungendo il picco dai 50 anni in poi, quando il 76,0 per cento delle nascite avviene grazie
a tecniche di fecondazione assistita. Nel 2023, il 38,2 per cento dei nati da PMA aveva una madre con più di 40 anni, una percentuale in costante aumento rispetto al 27,6 per cento del 2013. Complessivamente, la quota di nati vivi da PMA tra le donne di 40 anni e più è passata dall’8,5 per cento nel 2013 al 18,2 per cento nel 2023. L’età media delle donne divenute madri tramite PMA è di 38 anni rispetto ai 32 anni per le nascite naturali.
Infine, sia per la tendenza delle donne più istruite a posticipare la gravidanza, sia per fattori culturali ed economici, si riscontra un maggiore ricorso alla PMA da parte delle donne con alto livello di istruzione: nel 2023, il 6,2 per cento delle nascite da madri laureate è avvenuto con PMA, contro il 2,2 per cento delle donne con bassa scolarità.

Le condizioni di salute: più anni di vita, ma con più fragilità
La speranza di vita in buona salute rappresenta una sintesi efficace delle sfide poste da una società che invecchia: non basta vivere più a lungo, occorre garantire che gli anni guadagnati siano vissuti in autonomia e con una migliore qualità della vita. Nel 2024, come appena ricordato, si è raggiunto un nuovo massimo storico dell’aspettativa di vita (gli uomini possono contare di vivere in media 81,4 anni e le donne 85,5).

A fronte di questi recuperi di longevità, conseguiti nel periodo post-pandemico, l’indicatore che stima gli anni attesi di vita in buone condizioni di salute continua a ridursi. Per gli uomini la speranza di vita in buona salute osservata nel 2024 (59,8 anni) segna il riallineamento a quella del 2019. Per le donne, invece, la stima di 56,6 anni segna il punto di minimo dell’ultimo decennio: in un solo anno si stima, pertanto, che le donne abbiano perso 1,3 anni di vita in buona salute, ampliando il noto divario a loro svantaggio (-3,2 anni). Il primato di longevità del nostro Paese si deve anche ai livelli contenuti di mortalità evitabile, ovvero i decessi sotto i 75 anni che potrebbero essere ridotti o prevenuti attraverso interventi efficaci di sanità pubblica, controllo dei fattori di rischio e adeguata assistenza sanitaria. È la sintesi di due componenti: la mortalità prevenibile, legata principalmente alla prevenzione primaria e alla promozione di stili di vita salutari, e la mortalità trattabile, associata alla capacità del sistema sanitario di diagnosticare e curare tempestivamente.

Nel 2024, si confermano le differenze geografiche che vedono penalizzato il Mezzogiorno, con i livelli più bassi di speranza di vita in buona salute (55,5 anni), rispetto al Centro e al Nord (rispettivamente 58,9 e 59,7 anni). Inoltre, si conferma lo svantaggio di genere a sfavore delle donne in tutte le aree, con livelli di gran lunga superiori nel Mezzogiorno: una donna che nasce nel Mezzogiorno può contare di vivere in buona salute solo fino a 54 anni, meno di due terzi degli anni di vita attesa (63,8 per cento della speranza di vita alla nascita), mentre una donna che nasce nel Nord-est può aspettarsi di vivere in media fino a 58,8 anni in buona salute (68,3 per cento della speranza di vita alla nascita). Per gli uomini le differenze sono meno marcate, ma i residenti nel Mezzogiorno sono comunque caratterizzati da una speranza di vita in buona salute più bassa: 57,1 anni (71,1 per cento degli anni da vivere), rispetto a 62,5 anni per i residenti nel Nord-est (76,0 per cento).

Ottime le performance sulla mortalità evitabile
Nel 2022, il tasso di mortalità evitabile in Italia è il secondo più basso in Europa (17,7 decessi per 10.000 abitanti), ma il nostro Paese negli ultimi 10 anni ha visto diminuire in modo meno consistente la componente trattabile (dal 7,1 del 2013 al 6,3 per 10.000 abitanti) rispetto ai paesi che occupano le migliori posizioni. Migliorare questa condizione richiede un potenziamento degli screening, della diagnosi precoce e delle terapie, assicurando un sistema sanitario in grado di rispondere efficacemente ai bisogni di cura. I divari di genere sono ampi (la mortalità evitabile è quasi doppia negli uomini) e persistono forti differenze territoriali, con tassi più alti nel Sud e nelle Isole.

Crescono gli italiani che rinunciano alle cure: ormai sono uno su 10
Il disagio legato all’accesso ai servizi sanitari si manifesta anche nella rinuncia alle cure, spesso dovuta a motivi economici, organizzativi o legati all’offerta. Si tratta di una forma di esclusione che ha un impatto diretto sulla salute individuale e collettiva. Nel 2024, circa una persona su dieci (9,9 per cento) ha riferito di avere rinunciato negli ultimi 12 mesi a visite o esami specialistici38, principalmente a causa delle lunghe liste di attesa (6,8 per cento della popolazione) e per la difficoltà di pagare le prestazioni sanitarie (5,3 per cento). La rinuncia alle prestazioni sanitarie è in crescita sia rispetto al 2023 (7,5 per cento), sia rispetto al periodo pre-pandemico (6,3 per cento nel 2019), soprattutto per l’aggravarsi delle difficoltà di prenotazione. Nel dettaglio, la quota di persone che rinunciano per le lunghe liste di attesa è cresciuta di 4,0 punti percentuali rispetto al 2019 e di 2,3 punti rispetto al 2023.

Anche le motivazioni economiche sono aumentate rispetto all’anno precedente (+1,1 punti percentuali), in un contesto in cui cresce anche il ricorso al privato per visite ed esami specialistici: il 23,9 per cento delle persone nel 2024 ha sostenuto l’intero costo dell’ultima prestazione specialistica (senza rimborsi da assicurazioni), contro il 19,9 per cento del 2023. La rinuncia a prestazioni sanitarie è più frequente tra le donne (11,4 per cento) rispetto agli uomini (8,3 per cento), con il divario massimo nella classe di età 25-34 anni (12,5 per cento per le giovani contro 7,1 per cento dei coetanei). La differenza si riduce tra i 65 e i 74 anni e si annulla dai 75 anni. La rinuncia è più elevata per le persone adulte con età compresa tra 45 e 54 anni (13,4 per cento) e in particolare per le donne (15,6 per cento contro l’11,2 per cento degli uomini). In questa classe di età, motivi economici e liste di attesa pesano quasi in eguale misura, mentre dai 55 anni in poi prevalgono le difficoltà legate alle lunghe liste di attesa.

Nel 2024, il problema della rinuncia alle prestazioni sanitarie ha interessato il 9,2 per cento dei residenti nel Nord, il 10,7 per cento nel Centro e il 10,3 per cento nel Mezzogiorno. Rispetto al 2019, si osserva una riduzione del divario territoriale, determinata da un peggioramento soprattutto nelle regioni settentrionali: nel 2019, la quota era del 5,1 per cento nel Nord e del 7,5 per cento nel Mezzogiorno. Pure in un contesto di minore variabilità, persistono differenze territoriali nella motivazione alla base della rinuncia: nel Centro-nord sono riconducibili principalmente ai problemi delle lunghe liste di attesa (7,3 per cento al Centro e 6,9 per cento al Nord); nel Mezzogiorno, invece, pesano in eguale misura problemi economici e le lunghe liste di attesa (6,3 per cento dei residenti).

Per quanto riguarda il titolo di studio, nel 2024, le persone con un alto livello di istruzione continuano a rinunciare meno frequentemente a visite ed esami specialistici rispetto a chi possiede un titolo basso. Le differenze risultano particolarmente accentuate quando la rinuncia dipende da motivi economici, con un divario che tende ad aumentare con l’età. In particolare, nel 2024, tra gli adulti ha rinunciato alle cure per motivi economici il 5,7 per cento delle persone più istruite contro il 7,7 per cento delle persone meno istruite. La differenza si amplia raggiungendo 3,2 punti per gli individui di 65 anni e più (da 5,2 per cento a 2,0 per cento). Se il motivo della rinuncia è legato alle lunghe liste di attesa, invece, il divario per livello di istruzione riguarda solo gli anziani.

Dopo la pandemia da Covid-19, si rileva un generale peggioramento dell’accesso alle prestazioni sanitarie. Il fenomeno della rinuncia è aumentato nel tempo, e coinvolge oggi l’intero territorio del Paese, interessando tutti i gruppi di popolazione, anche quelli che prima del 2020 si trovavano in una posizione di relativo vantaggio (residenti nel Nord e persone con un elevato titolo di studio).

 

Aumenta il disagio psicologico degli italiani
Dal 2019 è in aumento anche il disagio psicologico: questo fenomeno interessa molti paesi OCSE e coinvolge in particolare gli anziani, ma è in crescita tra i giovani, soprattutto donne. L’indice di salute mentale, uno strumento psicometrico che fornisce una misura del benessere psicologico degli individui su una scala da 0 a 100, nel 2024 si attesta in Italia a 68,4 punti medi per le persone di 14 anni e più e sale a 70,4 punti tra i giovani di 14-24 anni.

Il disagio psicologico peggiora all’aumentare dell’età: tra gli adulti di 55-64 anni l’indice di salute mentale scende, infatti, a 68,2 punti, per poi ridursi ulteriormente nelle classi più anziane, fino a raggiungere il valore minimo di 65,1 tra le persone di 75 anni e oltre. Le differenze di genere, a svantaggio delle donne, sono presenti in tutte le classi di età, ma sono particolarmente accentuate tra i più giovani e tra i più anziani. Nel 2024, tra i giovani di 14-24 anni il punteggio medio è pari a 73,3 per i ragazzi e scende a 67,2 tra le coetanee. Tra le persone di 75 anni e oltre l’indice si attesta a 68,5 tra gli uomini e scende a 62,7 tra le donne. Dai dati si evince come nel tempo le giovani donne di 14-24 anni abbiano raggiunto il picco di minimo nel 2021 (66,3 punti) e non abbiano mai recuperato il valore del 2019, a differenza dei coetanei, che già nel 2022 si sono allineati al dato pre-Covid-19, salvo una lieve riduzione nel 2023 recuperata nel 2024. Tra i giovani di 14-24 anni il divario di genere è cresciuto negli ultimi 5 anni: era 3,4 nel 2019 ed è salito a 6,1 punti nel 2024.

In Italia ci sono 3 mln di disabili
Il Rapporto si sofferma, infine, sulle condizioni di salute dei disabili. Le condizioni di disabilità interessano milioni di persone e pongono esigenze di cura rilevanti in termini di autonomia, supporto familiare e servizi. Nel 2023, le persone con disabilità sono 2 milioni e 904 mila (pari al 5,0 per cento della popolazione), di cui 1 milione 690 mila sono donne. Nel corso degli anni la prevalenza risulta essere in lieve diminuzione, nel 2009 erano 3 milioni e 31 mila individui. Tale tendenza può essere interpretata sia come il frutto del miglioramento delle condizioni di salute generale della popolazione anziana, almeno di quelle che causano disabilità, sia in termini di diffusione di ausili e tecnologie che riducono le limitazioni e favoriscono l’autonomia.

La percentuale più elevata di persone con disabilità si riscontra nelle classi più anziane: sono infatti il 19,2 per cento tra gli anziani di 75 anni e più (15,3 per cento tra gli uomini e 21,9 per cento tra le donne), il 6,9 per cento nella classe 65-74 anni (6,5 per cento tra gli uomini e 7,3 per cento tra le donne). Nelle classi di età più giovani la percentuale di persone con disabilità è sensibilmente inferiore: si attesta all’1,4 per cento tra coloro che hanno un’età inferiore a 44 anni e al 3,9 per cento nella classe 45-64 anni. Tra le donne si osserva una prevalenza inferiore a quella degli uomini fino ai 64 anni, passati i quali la quota di donne con disabilità supera quella degli uomini. A livello territoriale, la prevalenza più elevata si registra nelle Isole (6,4 per cento), seguono le regioni del Centro e del Sud, rispettivamente il 5,2 e 5,0 per cento.

Nel Nord-ovest (4,6 per cento) e nel Nord-est (4,4 per cento) le prevalenze sono più basse. Nel 2023, le persone con disabilità che dichiarano di stare bene o molto bene sono il 9,8 per cento (12,8 per cento tra gli uomini e 7,6 tra le donne), quota decisamente ridotta, come è da attendersi, rispetto al resto della popolazione (83,1 per cento). La condizione di salute riferita dalle persone con disabilità, nel corso degli anni, è andata lentamente migliorando: tra di loro la quota di quanti dichiarano di stare male o molto male è passata dal 61,0 per cento del 2010 al 57,3 per cento del 2023 (59,5 per cento se donne). Tra le persone senza disabilità, la percentuale di coloro che dichiarano di stare male o molto male è di appena 0,5 per cento, senza differenze di genere. Uno degli indicatori più importanti per valutare le condizioni di salute della popolazione è la prevalenza della cronicità.

Dal 2010 al 2023, la percentuale di persone con disabilità con almeno una patologia cronica (multicronici) ha oscillato leggermente intorno all’88 per cento, evidenziando una sostanziale stabilità. Nel resto della popolazione si è osservata la stessa dinamica, ma con un livello sensibilmente più basso, intorno al 33 per cento. Nel 2023, tra le persone con disabilità, gli uomini con almeno una malattia cronica sono l’84,3 per cento (32,4 per cento nel resto della popolazione), le donne salgono al 90,6 per cento (33,7 per cento nel resto della popolazione). La presenza di almeno una cronicità, inoltre, aumenta con l’età, da 58,6 per cento nella classe di età 18-44 anni (16,9 per cento nel resto della popolazione) a 95,5 per cento nella classe di età 75 anni e più (69,8 per cento nel resto della popolazione).



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